Minuta scritta di un intervento di Stefano Giaccone ad un incontro/convegno di Lotta Continua di Torino, prima metà anni 80, incompleto.

 

 

 

Oggi che la mia vita personale ed il mondo mi appaiono sempre più come tessere di un mosaico gettati alla rinfusa dentro un sacco, l’impulso di tentare di comporre un disegno con questi frammenti è sempre più debole, più frustrante. Eppure, di tanto in tanto, cerco di capire come e dove un certo processo si è interrotto, come riallacciare quel filo che, indiscutibilmente lega un “prima” al presente. Non fosse altro perché sia allora che ora, io c’ero e ci sono. L’ipotesi, prima confusa poi sempre più “praticata”, di costruire la mia vita come militante rivoluzionario, è ancora qui, chiara e forte. Se quello che sto per dire sia solo l’ennesimo discorso “dell’ombelico”, se sia a-storico, extra-storico, anti- dialettico, non lo so e m’interessa poco. Vorrei solo, brevemente, spiegare da quale “pulpito” (?) mi sporgo a parlare. Appartengo ad una delle tante generazioni “militanti” che si sono succedute credendo che il proletariato, nel compiere la sua storicamente determinata rivoluzione, avrebbe liberato l’intera umanità andando alla costruzione di una società dove, con la sempiterna lotta allo sfruttamento uomo su uomo e uomo sulla natura, come basi “culturali” fondanti ci fossero l’uguaglianza, la solidarietà, la critica etica, un nuovo rapporto uomo/mondo, o, per dirla con termini più vicini cronologicamente, dove la ricerca della felicità fosse al primo posto, scalzando la ricerca del possesso e del potere.

Anzi, forse appartengo all’ultima o penultima generazione(qui uso il termine in senso storico e non demografico): pur giovanissimo (sono nato nel 1959), mi iscrissi ad un partito allora molto grande(oggi molto meno) che incarnava, con la sua Storia, Potenza, Mitologia la “carta” più vincente rispetto agli ideali di cui sopra. Dentro il Partito sono stato educato a sentirmi interno ad un grande processo storico, il cui disegno d’insieme ci era stato dato in eredità da un signore con la barba folta, da un altro, piccolo e magro, morto nelle galere fasciste e da uno con gli occhiali di cui uno zio baracchino FIAT mi diceva un gran bene. Sono convinto che, pur nelle diversità, per tutti quelli della mia generazione, del Partito e non, “l’educazione” alla militanza, al sentirsi parte, fosse molto simile: tu fai casino qui a Torino in solidarietà con i Comunisti irlandesi e un altro fa casino in solidarietà con l’IRA. C’è una grossa differenza certo ma il “disegno” che si ha in testa è lo stesso. Sono rimasto poco al Partito (tre anni) e nel 1976 (all’interno di “spostamenti” estranei al di lì prossimo settantasette), esco, portandomi dietro ed anzi liberando le mie simpatie anarchiche (ero abbonato alla rivista A anche quando avevo la tessera del Partito, a sua insaputa, certo), simpatie che attraverso i circoli del proletariato, il collettivo nato dalle ceneri del Partito Lotta Continua, frequentazioni di micro-movimenti di questi anni (punk, anti-nucleari, ecc.) ho sviluppato e sorretto con “studi”: oggi sono uno che cerca di essere un libertario e ne sono felice. Ma perché raccontare, per dirlo in inglese, i cazzi miei? Perché non si può ormai PRESUMERE con chi si sta parlando, non si può PRESUMERE che le parole ed i segni indicatori usati siano “CON-DIVISI”, cioè, in breve, capiti. Bisogna accendere le luci sulla pista d’atterraggio; dire chi si è, da dove si pensa di venire. Mi spiace per i Propagandisti Progressisti del Progresso, ma cercare di far capire da dove “scende” un messaggio è una attività che un computer non sa fare.
Quelle generazioni politiche appartengono ad una fase storica dello sviluppo del capitale che va dalla 1ma Guerra Mondiale fino alla metà degli anni settanta: la dialettica dello scontro di classe ha disegnato uno scenario sociale che oggi è ancora visibilissimo ma che tenderà a scomparire (e la cosa procede da quasi 15 anni) sostituito da nuovi territori del potere del capitale.

Che queste nuove “forme” siano poi dominate dallo sfruttamento, dal lavoro, dal potere, mi pare una banalità (si tratta di una nuova fase della società industriale non di una rottura rivoluzionaria, ahinoi) ed è come dire: “le cose alla Mirafiori erano pressappoco come su una triremi romana: gente che frusta e gente che rusca”. Sarà, ma dubito che Lenin ci avrebbe capito qualcosa buttato là sopra.
La fase di cui parlavo prima si è conclusa: e proprio perché non è una partita di pallone (dove l’arbitrio fischia) ognuno data la questione secondo le proprie impressioni ed esperienze. Discutendo in questi anni con molti compagni ho sentito citare coem boe “storiche” l’uccisione di Moro, l’Angelo Azzurro, i 35 giorni alla FIAT ed altre ancora. Anche se non è questo l’obiettivo del discorso, personalmente reputo come “boa d’inversione” del movimento rivoluzionario italiano, l’intero movimento del 77: la fine di un legame a corda doppia con la classe, l’emergere di nuovi soggetti sociali (e da dove nascono se non da una profonda evoluzione dell’impero industriale?) che per un brevissimo lasso di tempo hanno fatto un “cortocircuito” con le estreme propaggini della sinistra rivoluzionaria (alla FINE del loro ciclo!), l’altalenare (sinonimo di IMMATURITA’, e non poteva che essere che così) tra scendere (anche col piombo) sulla scena della POLITICA del POTERE e creare anfratti, enclave dove costruire NUOVE COMUNITA’ estranee alla logica della borghesia.

Il 77 decreta la fine di un modo di vedere lo scontro di classe ma anche di viverlo e non ne propone uno NUOVO: la galera, il piombo (di stato stavolta), la sconfitta subita ma soprattutto UNA NUOVA, appena appena iniziata, RIVOLUZIONE INDUSTRIALE cambia le mappe del territorio. Rileggere ora alcune riflessioni di Negri ma anche di Baudrillard è illuminante (ma la nostra esperienza personale è cartina al tornasole più interessante: per mia fortuna non sono di quelli che mangiano pane e libri quasi sempre scritti da borghesi e loro propagandisti).
Tre furono, a mio parere, le strade intraviste e praticate per bilanciare il tappeto strappato da sotto i piedi: a) la lotta armata, diciamo per il 10% del movimento; b) la costituzione (anzi la continuazione) in piccoli gruppi tipo Lotta Continua di Torino, LCxC, e molti altri. Altro 10%. C) omologazione. Si accetta nella vita quotidiana, nelle prospettive esistenziali, si aderisce culturalmente al disegno sociale che la borghesia propone. Passivamente come male necessario per sopravvivere o (e sono molti) attivamente, infilandosi, scalando, riverniciandosi, iscrivendosi, se entra nella gerarchia.