“Traccia/schema per un intervento parlato ad un convegno sull’arte” di Vanni Picciuolo

Questo è quindi un elenco di CONSTATAZIONI che poi possono essere anche discusse, ma che costituiscono il portato delle nostre esperienze (pluriennali) e dei nostri “studi” in merito con annesse pratiche errori discussioni ecc.

Nel corso del nostro lavoro-esperimento siamo venuti in contatto con il risultato di altre esperienze simili, sparpagliate nel corso di più di un secolo e per tutta l’Europa, il cui ricordo è stato accuratamente sepolto. Quindi abbiamo anche imparato, letto, studiato, confrontandoci con questioni “spinose” dal punto di vista teorico e perché no? filosofico. A partire dalle nostre pratiche, dai nostri bisogni di chiarezza ci siamo scontrati-rapportati con i saperi, quelli accademici e quelli “contro” maturati dai movimenti secolari di lotta. Da cui il perché di questa bibliografia: avanguardie artistiche, letteratura e rivoluzione (Trockji), l’improvvisazione (Bailey), il mercato dell’arte (Teige), opera d’arte nell’epoca della sua riproduzione (Benjamin) oltre a Foucault, Laing, Cooper, Marcuse, Adorno, Marx-Engels.

Prima cosa: chiarire il nostro pensiero in merito allo stato attuale della produzione estetica o arte. Diciamo subito che il termine Arte e il suo concetto nel significato comune non risponde alle nostre esigenze.

La cosiddetta “arte” oggi, ma non solo da ieri, è un mercato e una produzione dove sono vigenti le stesse regole che dominano il resto della struttura sociale: ferrea divisione internazionale del lavoro con aree depresse e aree trainanti, concorrenza spietata, selezione darwiniana del più debole, nepotismi e clientele, dinastie, oligarchia e autoritarismo, viscido arrivismo, servilismo, mafia, dittatura e monopolio, guerra per bande.

Riprendere il suo senso medioevale e greco che coincideva col concetto di mestiere, abilità e di esperienza collettiva e che si conserva nel termine artigiano, artigianato. [riprendere ART AND CRAFT (W. MORRIS INGHILTERRA fine ottocento) arte=mestiere=lavoro e gioia nel lavoro/abilità: creatività]. in contrapposizione col concetto attuale che mistifica una serie di contenuti e si rifà all’avvenuta divisione del lavoro definitivamente maturata anche nel campo delle arti in seguito all’avvento al potere della borghesia e del suo sistema produttivo: nasce l’”artista”, la figura del professionista dell’estetica pagato per dare prestigio, per lustrare, per appagare il gusto “raffinato” delle aristocrazie che, proprio a partire anche da questo, si legittimavano come autorità culturali superiori ai loro sottoposti rozzi e incolti; ma anche artista per ripagare (mercato delle opere, miti, consenso politico, gerarchia dei meriti, e delle intelligenze, accademia) l’attuale concetto-termine “arte” è marcio di arrivismo, individualismo, profitto, sfruttamento.

Bisogna lottare per ricomporre la produzione estetica e risocializzarla renderla fruibile, fattibile, egualizzabile anche nei discorsi che si fanno “su” di questi problemi: degerarchizzare, deprofessionalizzare, l’arte come comparto industriale della produzione culturale totalmente industrializzata (e in via di automazione) l’arte come merce.
Anche gli artisti sono diventati gli specialisti sempre più parcellizzati della loro industria: Michelangelo e Leonardo sono gli esempi limite dell’universalità che oggi si è persa quasi completamente (erano pittori, architetti-ingegneri, scultori decoratori, poeti e musicisti). Oggi all’uomo è lasciato solo un campo di “abilitazione” (come nelle classi di concorso statali ben compartimentale in ogni ordine e grado di abilità, competenza, responsabilità, autorità, remunerazione).
Così come per tutte le altre merci anche l’arte ha un suo mercato e, si sa, un mercato inflazionato di produttori concorrenti abbassa il prezzo delle merci ecco quindi la tendenza a chiudere il numero dei membri come in tutte le altre corporazioni professionali, dette oscenamente, liberali (giornalisti, avvocati, medici, notai, ecc.)

diceva Godard: gli americani vorrebbero produrre un solo film che tutti dovrebbero vedere e pagare: monopolio assoluto e concentrazione dei mezzi di produzione in alcuni poli-mani-imprese.

Come giù avvenne nelle città medievali anche oggi c’è lotta per dividere “le arti” in maggiori e minori e per separare continuamente ciò che è arte da ciò che non lo è perché di livello inferiore, di secondo ordine nella ricerca esasperante della supremazia; il cinema e la fotografia stanno vincendo la loro battaglia, ma anche i sarti (pomposamente denominatisi “stilisti”) oggi rivendicano i loro primati e meriti e, con molti altri, il loro status di “artista” per ragioni di prestigio, di fama, di gloria e di denaro. Per non parlare delle diatribe accademiche sulle varie superiorità ed “eccellenze”: della musica sulla pittura, dell’architettura su entrambe le precedenti, del cinematografo su tutto, della fotografia come insuperabile, della poesia sulla prosa, e del teatro… ecc. ecc. !!! Recuperare perciò il senso artigianale del lavoro estetico per cui si diceva anche dei ladri o dei truffatori che erano degli “artisti” mentre gli operai provetti e specializzati dovevano eseguire “il capolavoro” come prova d’assunzione; demistificare il termine, scoprire il banalissimo marcio affare che sta sotto la celebrazione di ogni nuovo “artista”.

Elenchiamole le “arti”: classiche: pittura, scultura, architettura (arredo, decorazione ecc.). “nuove”: fotografia, cinematografo, disegno industriale letteratura: romanzi (di ogni genere e grado), poesie. musicisti (classici, jazz, etnici, pop, folk, rock, punk ecc.) teatranti (scrittori, attori, registi, ballerini ecc.)

Ma anche i pubblicitari, gli stilisti modesti e alcuni parrucchieri ambiscono al seggio. Da notare come in tutti questi settori ci siano, o vengano continuamente create, differenziazioni di livello che sono poi la causa di violentissime dispute fra gli addetti ai lavori: romanzi popolari, gialli, fantasy, pornorosa ecc. e grande letteratura; musica classica e colta, impegnata o leggera e d’intrattenimento; cinema d’autore e commerciale di cassetta, porno, pornosoft, comico goliardico, comico intelligente, di genere ecc. ; grandi magazzini e alta moda miliardaria; pittura e fumetto ecc. Il sapere anche quello artistico non sfugge alla gerarchizzazione, alla classifica, alla politica, al potere.

L’estetica viene propagandata come religiosamente mistica, difficile, incomprensibile e astrusa come esclusivo approccio di durissimo lavoro ecc. come territorio dell’eccezionale e del genio: chiaro che le condizioni materiali di vita proletaria allontanino dalla produzione, ma spesso anche solo dalla fruizione, come pubblico, di tutto ciò. Molto più semplice darsi a uno sport per sfuggire alla fabbrica, alla galera o all’esercito. La produzione estetica sembra essere accessibile solo dopo lunghissimi e duri anni di studi e scuole di ogni tipo con attestati, diplomi, lauree, concorsi ecc., come d’altra parte qualsiasi professione “privilegiata”. Compaiono anche qui le eccezioni i “self made man” gli esempi viventi che tutto è possibile per chiunque se ci sono iniziativa, idee chiare e teste dure si può arrivare a dirigere un’impresa, un partito, un film. La produzione estetica è sradicata, cancellata dalla vita delle masse ridotte al puro esercizio del consumo compartimentato. Poi esistono le ragioni di mercato, prodotti vendibili ecc., e quindi la Critica grande arbitro della grandezza delle opere e soprattutto del loro valore commerciale, e gli imprenditori produttori industriali che decidono se il prodotto è competitivo oggi e se sarà remunerativo domani meritando gli investimenti del caso. Il giudizio di “valore” sulla merce artistica è sempre

derivato dalla commerciabilità, dalla vendibili, dalla possibilità di speculazione finanziaria sul prezzo (questo è tanto più vero per la cosiddetta arte alta, d’élite dove il prodotto, ormai mostruosamente “prezioso”, diventa status simbolo da un lato e investimento sicuro dall’altro (questa logica è arrivata anche in borsa dove esistono apposite finanziarie specializzate negli investimenti artistici (soprattutto arti figurativa).

IL PROBLEMA DELL’ESTETICA della sua produzione e del suo consumo

Chiaramente il discorso che precede non chiarisce un sacco di cose; ovvero per non gettare il bambino con l’acqua sporca:
c’è l’estetica, al di là della sua sociologia (imprescindibile comunque), il fatto dei suoi contenuti, ma, soprattutto, come esperienza, nel momento in cui un uomo si cimenta con la produzione o con il consumo del “bello”. Qui si dovrebbe aprire un discorso basato da un lato sulla storiografia e dall’altro sull’antropologia per sviscerare come il gusto per il bello (Croce il vero (filosofia) il bene (morale) il bello (arte) l’utile (tecnica economia)) [il bello come inutile? come surplus?] sia un problema di cultura, di mentalità, di organizzazione sociale, di produzione, di religione ecc. e come sia dipendente relativo alla società nel suo complesso, per cui se è vero che l’estetica è una produzione comune a tutte le razze a tutte le latitudini in tutte le epoche questo non chiarisce il modo in cui essa agisce nei vari corpi sociali, i suoi nessi con la collettività e l’individuo, con le pratiche sociali e col potere e le sue rappresentazioni, col magico e il religioso. La nostra (occidentale) concezione è fortemente imperialista perché tende ad assolutizzarsi come “naturale” ed eterna, sia nello spazio geografico sia nel tempo attraverso i secoli.
Estetica e piacere, libido, eros, come attività produttiva e vitale e perciò amorosa: gusto compiacimento, godimento, sono aggettivi che spesso accompagnano l’estetico, ma il godimento si rifà a dei canoni, a degli apprendimenti: le cose piacciono o non piacciono a seconda di convincimenti culturali, rigide griglie interpretative; ad esempio dalla bellezza dell’armonico, dell’equilibrato e proporzionato, si è passati all’estetica della dissonanza della rottura. Ciò che porta materiale all’immaginario, alla coscienza e al gusto con le sue trasformazioni è il sociale è la lotta è il conflitto oppure le forme apparentemente eterne del dominio e la sua apoteosi.
Non si può capire un vaso rompendolo in mille pezzi. Il concetto vero di vaso è inseparabile dal vaso nel momento della sua funzione di contenitore; i pezzi di una moto separati e smontati non sono una motocicletta, la moto è nel momento in cui viaggia e funziona. I canti gregoriani, le pitture rupestri, la musica sacra giapponese, il blues e il jazz, la poesia zen o il dolce stil novo, le decorazioni delle capanne maori o bantu, gli abiti cerimoniali cattolici o dei pellirosse, tartari, maya ecc. fuori dal loro contesto e sotto la comune etichetta di arte e bello ecc. perdono completamente il senso (mistificazione) così come la carica violentissima (socialmente) delle opere degli impressionisti, dei surrealisti o dei dadaisti elevate nell’empireo dell’arte (mummificata e santificata) restano come denti dopo l’estrazione o carogne dopo la morte ben esposte all’obitorio ma completamente altro da ciò che erano. Questo tipo di valutazione storica, sociologica e politica è imprescindibile da qualsiasi discorso che voglia parlare di gusto, di bello, di valore di opera d’arte, produzione di valori spirituali o estetici o meno.

L’estetica occidentale che ha le sue radici in Europa è diventata campo della pretesa libertà assoluta, e della creatività “individuale”. L’arte per l’arte slegata da qualsiasi ricatto “terreno” imposizione dell’autorità religiosa o politica-feudale nasce con la borghesia e il suo concetto di libertà individuale (definizione di Marx sull’artista come baco che fa la seta). Almeno a partire dall’Ottocento compare la figura dell’artista completamente libero (anche di morire di fame), trasgressivo e perciò anormale fino a sfiorare o ad entrare nella follia, il maledetto, l’ipersensibile intelligente che si erge nel tempo contro l’economico, il tecnico, il politico. Una contraddizione feconda e potenzialmente sovversiva fra arte e società.
Marx definiva lo spirito capitalistico e mercantilistico come NEMICO delle arti specie di quelle figurative e della poesia. L’arte è stata accuratamente messa al margine della società fondata sul dominio della merce del denaro, si è verificata un’enorme frattura fra artista e società, fra i valori cui si ispirava l’arte anche in senso romantico e sentimentale e la realtà del mercato liberistico. Sino a che il valore di mercato dell’opera non veniva sufficientemente valutato.
In alcuni momenti del nostro passato, l’arte è diventata anche avanguardia in senso politico, e in senso antigerarchico, antilibresco, antiaccademico, antiautoritario; la rivolta artistica spesso è anche stata la rivolta del giovane, ed emarginato dalle spartizioni di bottini, contro il vecchio e ben insediato, con culo di pietra, a tavola. Gli esempi sono innumerevoli e risaputi, come sono conosciuti i comportamenti opposti accademici e ossequiosi o i tradimenti appena a tavola si liberava un posto in più.

Si sa anche d’altronde l’uso che della trasgressione è stato fatto e viene fatto tutt’ora: è finita nei musei trasformata in monumento da venerare, o all’asta spartita a colpi di miliardi e peggio ancora nei libri e nei manuali edulcorata e spenta, accuratamente interpretata e reinserita nel grande corso lineare del progresso e del “cammino delle arti” a legittimare le attuali forme del potere e del dominio.
Oggi la “trasgressione” è una delle fonti di maggior guadagno dell’industria culturale; da Woodstock-Fragole e sangue al punk rock, il capitale usa le pulsioni al piacere a alla ribellione per riprodursi e valorizzarsi.

L’artista, per quanto maledetto, violento, folle, trasgressivo non intacca la sostanza del problema: se stesso in quanto “artista”.

FRANTI

Sfuggire al dominio del valore e delle merci, dei generi, dei mercati, delle mode; criticare fattivamente tutto questo; risalire dal particolare di una singola nota, di un singolo disco, di un singolo concerto, al generale del quadro culturale di dominio dispotico dell’uomo sull’uomo.
Sporcarsi le mani, provarci. Ecco Franti

Ma anche giocare, produrre “musica “testo” e mostrare-scambiare le proprie produzioni con altri. Confrontare, scontrare il proprio gusto, la propria logica, i propri desideri, la propria storia. Divertirsi e soffrire. Confrontarsi con gli strumenti per suonarli e quindi, in realtà, spesso “essendo suonati” noi stessi dallo strumento e dalla musica. Ecco l’autogestione.

[Gli strumenti musicali sono fra i pochi strumenti manuali artigianalmente sofisticati ancora in circolazione; essi racchiudono una grossa somma di esperienze, conoscenze, linguaggi e tecniche, alludono a precise necessità operative, impongono a chi ci si accosta la loro logica, fanno sentire ignoranti, inadeguati, goffi, maldestri; incutono timore e rispetto, obbligano

a movenze precise, vincolano nei limiti prefissati dalle regole musicali. Come dicevano i maestri Zen, ma anche i capomastri operai di un tempo “un buono strumento educa chi lo usa a compiere un buon lavoro”]
La robotica, anche in questo comparto produttivo, tende a spazzare via la manualità e un certo tipo di conoscenza per imporre standard più economici; oggi è possibile con un “buon musicista” e un computer simulare l’intera filarmonica.
Lottare contro il virtuosismo atletico-sportivo in musica, contro il tecnicismo esasperato e saccente, l’individualismo agonistico, il divismo e i suoi miti, contro le classifiche e le premiazioni, significa indicare un modello culturale che sia privo di tutte queste oscenità e propagandalo con la forza dell’esempio concreto operativo, con la lotta. Rifiutare la logica della divisione del lavoro fra pensatori ed esecutori, tra artisti e spettatori significa indicare una tendenza (e non è la prima volta: vedi surrealismo impressionismo dadaismo ecc.) un desiderio, un sogno.
Riproducibilità tecnica e scolarizzazione di massa (relativa) hanno contribuito alla diffusione maggiore di alcune arti: fotografia, cinematografo, letteratura, musica. La musica in particolare ha acquistato un grosso significato di massa sia relativa al consumo al consumo sia ( in termini comunque ridottissimi e contraddittori di possibile produzione (veicolo di ideologie e di moda).
Sforzarsi di essere quindi credibili e affrontare “il pubblico” rendendosi conto degli standard sonori a cui è abituato (qualità di esecuzione e di registrazione, aspetto del prodotto disco-concerto-cassetta ecc.). L’industria usa professionisti abilissimi, in gambissima e strapagati che non fanno altro che suonare, filmare, disegnare, pensare studiare con a disposizione tecnologie sempre più perfette ecc. La “gente” pretende da chiunque quel livello (altrimenti non ti caga). Affrontare con serietà questi fatti, ponendosi così il problema della cultura dominante (in cui siamo immersi tutti) per sconfiggerla, significa in realtà tentare di “creare un pubblico” come noi lo vorremmo cioè distruggendolo nella sua forma attuale.

Confrontarsi con tutto ciò oggi è suonare

Per la diffusione di queste idee che, lo ripetiamo, non sono niente di nuovo in quanto affermazioni teoriche, ma che sarebbe ora si traducessero in cose, fatti, noi abbiamo effettuato una serie di compromessi, primo fra tutti la registrazione, la fissazione su supporto magnetico o vinilico della musica che si produceva. Questo rapportarsi con il mercato e quindi con gli “ascoltatori” per veicolare attraverso la musica le nostre idee e i nostri metodi. Poi per imparare a registrare, per vedere-capire come si fa, e in più per piacere, per gioco e, ancora, nella logica della “foto ricordo”. E proprio a proposito di questa logica che parlavamo di contraddizione compromesso.
La registrazione musicale o di immagini così come quella di parole concetti con la scrittura è un potentissimo mezzo di diffusione e di conoscenza. Ci sono però dei rischi: collezionismo sfrenato (spiegare) feticismo di possesso; logica consolatoria e rassicurante sulla deperibilità di tutte le cose, non ultima la vita stessa, e rifiuto più o meno inconscio di volersi confrontare col problema della fine e della morte: la musica inafferrabile legata, come la voce, alla vita e alla “presenza” del musicista o dell’uomo cantante-parlante erano inquietanti precarie ecc. La registrazione sonora offre un surrogato dell’immortalità così come le statue nella pietra sembrano sfidare i secoli e la nostra precarietà effimera. Essa dà a chiunque e, naturalmente, a prezzi variabili la sensazione di “possedere” Bach o Beethoven ecc.
Le ultime pubblicità con l’uso infame di Totò sono in linea in modo sempre più grottesco e osceno con l’appropriazione da parte dell’industria culturale dell’”anima” stessa dell’artista (il suo cadavere?) che spessissimo fa guadagnare molto più da morto che da vivo (impressionisti maudits Hendrix Marylin ecc.) Logica di consolazione e rassicurazione di fronte alla morte e sul “senso” delle cose.

Dalla discussione di questi fatti la rivalutazione del gesto in se nel momento in cui viene fatto e per il suo valore di esperienza da parte dichi lo fa o di chi lo fruisce (sente musica) slegato da qualsiasi utilitarismo presente futuro (contraddizione con la logica politica precedente). Recupero dell’esperienza musicale nel momento in cui vive fra le persone che ci sono coinvolte (logica simile alle cose dette dall’art studio).

Subalternità “morale” del discorso artistico estetico: noi abbiamo cominciato a confrontarci più precisamente sul terreno della musica-poesia-cultura dopo che eravamo stati sconfitti su quello prioritario dello scontro sociale e delle sue conseguenze istituzionali e politiche; dopo che era diventato impossibile, pena la morte o la detenzione, continuare a vivere come prima. Abbiamo cercato altro terreno non criminalizzabile, meno immediatamente pericoloso per l’attuale gestione della società, dello stato, dell’economia, ma che ci consentisse di proseguire a vivere parlando e capendo e non come zombi sordi, ciechi e muti suicidatisi nelle varie carriere professionali, nel silenzio di fronte alle nostre TV, nelle famiglie, nel bagno dopo il taglio delle vene o l’ingestione di barbiturici.

Franti come esperienza concreta: problemi psicologici