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Costruire la prateria di Stefano Giaccone, scritto per un articolo – anno 1985

Torino è la mia città. Ci lavoro, ci ho studiato, giro per le sue strade. Ascolto la musica dei suoi bar, delle sue radio, dei garage, cantine, birrerie piazze. La musica la faccio. Ma sono stanco. Sempre più spesso in questi ultimi anni discutendo con musicisti di Torino con i quali suono o semplicemente conosco, sento ripetere “Chi oggi ha ancora la voglia e la forza di suonare a Torino deve proprio essere pazzo”. E la pazzia d’altronde ci ha fatto sempre da dolce compagnia: pazzo si bolla l’anormale, colui che non accetta e distrugge ,vivendo, la norma. La corrode come una talpa potentissima. Una grande e triste risata in faccia a chi mi vuole l’immobile normale operaio nel mondo, stanco da voler morire: Ma io sto coi Nexus 6, cerco dio nella notte delle megalopoli. Per ucciderlo. Però sono stanco e siamo stanchi in tanti che continuiamo a suonare. Scriverò qualche scenario di ciò che ho visto e imparato nei 12 anni che mi sbatto e soffio in un sax. Voglio metterci dentro le strade, le cantine, gli amici, gli strumenti, i concerti e la rabbia. Da qualche tempo anche la “vecchia generazione” di musici si sta scuotendo. Unire le mani, le gole, i piedi, gli sforzi, la voglia di divertirsi, giocare e far giocare gli altri nella musica, unire tutto questo con l’utopia. Essere liberi, essere musicisti, essere. E’ un messaggio di lotta, rivolto e stimolato dalla scossa dei punk, delle decine di giovani che suonano e non possono farlo come vorrebbero. Perché? Procediamo con ordine: 1) C’è un termine che ricorre spesso nei giornali e nelle riviste “specializzate” ed è “la scena musicale”. Di Torino si è sempre detto (e si dice) che è povera, sia musicalmente, sia come quattrini che girano, sia come locali. Mai come oggi il termine “scena” ha connotati così negativi: vale a dire si mette in scena qualcosa, si mostra. Ogni gruppo come una piccola tribù marziana piomba dal cielo e mostra quel che sa fare, dando un’importanza, sconosciuta prima, alla messinscena. Tradotto nel linguaggio filo-inglese (ah, la Lady di Ferro!) del Metro e di Rockerilla, si legge “look”. Quelli hanno un look scioccante, quelli un look psichedelico, gli altri un look da metallo. Va bè, ma cos’è e cos’era la scena musicale torinese? Che sia materia vasta e difficile è evidente: cerco di raccontare quello che ho visto in questi anni, suonando in (credo) 12/15 gruppi differenti. Non da professionista, per essere chiari. Ho iniziato a suonare nel 72/73 e allora le cose erano abbastanza diverse. C’erano quelli chiamati “cantinari”, ragazzi (spesso giovanissimi) che in condizioni sovrumane tentavano di rifare qualche pezzo dei gruppi preferiti: Pink Floyd, Genesis, le Orme, Battisti, Rolling Stones e altri. Gli amplificatori erano o inesistenti o delle radio trasformate oppure terrificanti Steelphon gialli da 50 watt. Le cantine erano quelle di qualche componente oppure si usava un garage, ma raramente si affittava. Oggi tutto questo c’è ancora (edi più quantitativamente) ma delle differenze (e grosse) risono. Le dico dopo. Gli strumenti facevano dei giri incredibili per la città, sebbene il movimento dei musicisti e la conoscenza tra di loro fosse minima. Giravano di più le Eko e gli Ibanez e le batterie Meazzi che i musicisti. Allora un punto di riferimento fisso erano i grandi nomi della pop music inglese, che vedevi in foto su Ciao 2000 sempre assieme, con le mogli, sull’aereo per New York. E così molti li imitavano in tutto: trovare il nome subito, scriverlo sulla cassa, sulle custodie (se le avevi). Molti gruppi che usavano le sigle dei cognomi come gli ELP ad esempio. I veicoli per sentire musica erano i concerti (abbastanza frequenti, spesso organizzati da Alfonsino, spesso con battaglie di strada lussuriose) e dischi comprati (o presi al volo) da Maschio e Ricordi. Niente altro: ah, sì. C’era “Per voi giovani”. I fratelli maggiori Bertoncelli e Masserini ci raccontavano le ultime novità musicali. Pochi nomi, sempre quelli. Quando uno diceva, m’interesso di musica, sapeva quasi tutto.

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Dove si andava a suonare? Da nessuna parte il 90% delle volte. Pochissime opportunità si presentavano per farsi ascoltare. Spesso l’occasione doveva essere rifiutata per mancanza di impianti sonori propri; pochi li avevano, giravano a suonare in sala da ballo, affittarli costava caro e c’era pochissima offerta in quel campo. Mi ricordo di una grande festa organizzata dal Comune (non quello rosa, l’altro) al Valentino Vecchio. C’era Gassman e altri bonzi che parlavano alla popolazione (5/6000 persone) e per il concerto avevano chiamato i Delirium. Come dire i Matia Bazar oggi (come notorietà, intendo). A manifestazioni molto più importanti oggi si chiamano una della dozzine (+ o -) di gruppi cosiddetti “affermati” di Torino: che so, i Gol, la Jambon Street Band, gli Arte e Mestieri. Allora non c’era nessuno da far suonare, oppure gli organizzatori non si fidavano. A tre metri dal palco non si sentiva più un cazzo. Sulle casse le scritte “Delirium”: erano i proprietari e se lo erano anche montati (li avevo visti). Per suonare rimanevano tre vie: 1) Festival dell’Unità, molto più numerose, più seguite e più movimentate (verso le elezioni del ’75). Quasi nessun Festival pagava a parte l’attrazione serale (circa due gruppi nella settimana). Io suonavo in uno di quei gruppi (tutt’ora esistente con altro nome però, l’Astrolabio). Ma allora l’impianto dovevi avercelo perché quasi mai te lo davano. In due stagioni ho fatto (credo) 60 Festival. Anche due al giorno. E sulle strade di Giaveno, Chivasso, Ferriere, Asti, P.zza Risorgimento, via Sassari ecc. ci trovavi sempre i soliti gruppi. I musicisti torinesi si erano consorziati in una Cooperativa alla quale il PCI (e il PSI, il PDUP, l’Arci ecc.) telefonava per avere i gruppi. Non sto a raccontare come erano quei Festival perché oggi sono identici e chiunque c’è finito almeno una volta. 2) Suonare nelle parrocchie o nelle scuole. Il concerto in parrocchia è stato una costante per quasi tutti i gruppi. Spesso perché il locale – prove lo si trovava lì, in cambio appunto di “prestazioni” durante feste interne o raduni di boy scout. Il tutto rientrava nella rete (e nella formazione culturale prodotta) dell’oratorio. Il primo concerto di FRANTI è stato tenuto dentro un teatro parrocchiale insieme ad un altro vecchio gruppo cittadino, tutt’ora esistente: i Quasar. Nelle scuole, raramente si trattava di concerti organizzati su richiesta della scuola; più spesso erano tenuti durante occupazioni. Qualche volta l’appartenenza all’istituto ti permetteva di far rientrare nel programma la tua banda. Anche lì i nomi per erano spesso uguali: Maolucci, Fausto Amodei (entrambi della Coop di cui sopra), migliaia di altri cantautori che non creavano grossi problemi organizzativi e poi erano di moda. In qualche scuola (poche) qualche locale vuoto era dato in gestione a musicisti – allievi. 3) Auto-organizzarsi il concerto. Bisognava essere di un certo livello per poterselo permettere. Livello economico e di notorietà. Succedeva molto raramente. Anche alle feste della sinistra rivoluzionaria si invitavano le Nacchere Rosse, Zezi di Pomigliano d’Arco, Donatella Bardi, Madan, Claudio Lolli, in seguito gli Area. Uno dei concerti che ricordo a Torino autofinanziato (con manifesti sui muri) era stato quello dei Living Life il gruppo di Johnny Betty e Spooky. Sarebbe uscito anche un loro disco dopo un pò. La cosa fece abbastanza colpo. Questo per il “giro” dei cosiddetti cantinari, componente maggioritaria del movimento musicale torinese, che allora era conosciuto per il jazz rock, generi dove suonavano musicisti (in seguito) professionisti, sotto la spinta del batterista (che veniva da fuori) Furio Chirico.

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Difficile ricordarsi dei nomi di quel periodo: UKO, un gruppo underground, diverso, una specie di comune break, sicuramente interessanti, ispirati dalle Mothers of Invention, suoneranno alla prima rassegna dei gruppi di base (così si chiamavano) per poi sparire (forse); gli E.F.E gruppo prima di pop e poi influenzati dall’ascesa del rock mediterraneo, sciolti da un pezzo; l’Insieme, gruppo di musica popolare metropolitana nel quale ho suonato per due anni; Cantambanchi e Cantovivo (ci sono ancora ahinoi); Mass-Media power-rock, oggi suonano ancora cercando il successo; la Casa degli Gnomi, poi solo Gnomi, rock sul genere King Crimson, bravi tecnicamente dotati sono diventati (qualcuno almeno) i Tecnospray, primi new-wavers torinesi e ora i Monuments e Carmody. Poi i Dedalus, trio di jazz rock sperimentale, avviati verso il professionismo, due LP all’attivo, oggi qualcuno di loro fa il jazzista, ma a Roma; un vecchio gruppo ancora attivo di rock, i Nuages. Nello stesso periodo (forse un pò dopo) Heat Puppets (suonano ancora, presto un LP), Crazy Band, Horus e altri.

2) Con l’insediamento della giunta Novelli cambiano parecchie cose. Cambia la gestione dei servizi, della loro rete di controllo, le presidenze di teatri, enti, assessorati, gruppi di manager. Per un pò e tuttora, produttori e padroni di cinema, impianti, studi di registrazione, negozi di dischi, grossisti trovano nel Comune la vacca da mungere. E’ il Comune munge noi. Il rapporto tra la Giunta e la musica a Torino non è mai lineare anche se ultimamente la sua linea politica sembra più definita e precisa. Intanto c’è da ribadire l’importanza del momento politico che si usa definire il ’77. Forse per la prima volta dentro un movimento giovanile (variamente composto dal punto di vista di classe) si pongono all’ordine del giorno l’attacco diretto contro l’alienazione e la ghettizzazione della cultura e del “tempo libero” come componenti essenziali della vita quotidiana in città. Non si tratta più di richiedere servizi sociali che possano rendere meno duro e frustrante il tempo di non-lavoro, ma di spazi, soldi e tempo per l’autorganizzazione e l’autogestione di micro-progetti che attacchino alla base l’industria culturale (e quindi musicale). Anche da questa volontà antagonista di partenza velocemente ci si sposta verso i muri portanti della situazione = più tempo liberato (mutua, lavoro precario, part-time) più soldi (salario sociale per disoccupati e studenti, autoriduzioni) più spazi (occupazioni di case, locali, uso autogestito di teatri, piazze, scuole, ecc.) Non volevo scrivere un articolo sul ’77 ma per finire, voglio aggiungere che praticamente (nel senso solido) di tutto questo sforzo è rimasto pochissimo; d’altra parte una serie di idee, di percorsi, di esperienze hanno sedimentato proprio là dove nel ’77 c’era maggiore attenzione verso questi problemi. Ad esempio il quartiere S. Rita-Mirafiori (2 sale musica per provare, decine di gruppi che si conoscono e si scambiano, concerti più o meno regolari in zona, ecc.) e Vallette (soprattutto teatro come la Rana

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Gresba, ma anche concerti, giornale di quartiere ecc.). Rispetto alla musica e al teatro realmente di base (che NON è quello che ci propina il comune con L’Inculagiovani) questi due quartieri sono quelli trainanti, E poi c’è Vanchiglia ma quel poco che so lo dirò dopo. Alla fin fine però quello che la gente si ricorda di quel periodo sono le bocce ai Santana. E quelle (politicamente e musicalmente) erano state delle vere stecche, ma è un’altra storia. I giovani si trovano nei circoli, suonano, fanno feste dentro e all’aperto, molto spesso sono enormi per numero di persone. Il comune capisce e si organizza. Il P.C.I. così contrario alle radio private (è chiaro: se avessero preso il potere perché far parlare qualche altra voce oltre che quella di stato, of course Mr. Baffone) impianta la più potente radio di Torino e una delle prime in Piemonte. Il nome è di quelli lucidamente non-sense: Flash, veloce, non palloso music, music music, colori e neon. Dall’altra sponda i topi di fogna chiamano la loro, un pò più trucidamente, Blitz che sta per lampo e cioè FLASH. Il PdUP voleva aprire Radio Correntina ma non ha trovato il cesso, scusate il locale. E poi la trovata dei Centri d’Incontro, le Rassegne dei gruppi di base, la Cooperativa Musica dal Vivo e via via fino ai giorni nostri. Analizzando: 1) i Centri d’Incontro: senza voler approfondire, i CdI sono la risposta nei quartieri alle esigenze aggregative di settori sociali quali i giovani, i pensionati e attraverso biblioteche, discoteche e simili a tutte le fasce d’età. Per quanto riguarda la musica, nei CdI da circa due anni e mezzo sono stati ricavati dei locali chiamati “Sale musica”. Lo scopo è quello di permettere ai gruppi non professionisti del quartiere di fare le loro prove. Ora, al di là di quelli che piagnucolano “ci hanno già dato molto” dimenticandosi che e come si è fatto il culo perché la giunta fosse messa di fronte ad una richiesta da soddisfare, le sale sono poche e semi-inutilizzabili. Se non sbaglio sono 6 in tutta Torino e due sono nel quartiere Mirafiori Nord – S. Rita, L’incompetenza e il non voler far decidere a futuri fruitori ha fatto sì che in cambio di cifre folli (per noi) fossero sistemate delle stanze dentro i Centri d’Incontro, insonorizzati pessimamente da ditte appaltate, con strumentazione di fortuna semi – distrutte ma soprattutto senza creare nessuno presupposto per permettere ai diversi gruppi di conoscersi, di imparare ad usare quei materiali e di nuovi, di autogestioni concerti e rapporti con le altre “aggregazioni” esistenti. In qualche posto s’è fatto qualcosa in più ma sempre per iniziative esterne (vedi il futuribile progetto MUSIK). Tant’è vero che spesso i gruppi per suonare si sono autotassati e di tasca propria mantengono 3/4 contratti d’affitto strumenti, batteria, riparazione se non addirittura una polizza assicurativa contro i furti, Ma nonostante tutto il prezzo è lontanissimo dalle cifre richieste da altre parti (che diremo) e perciò i C.d I. si sono riempiti da tutti i gruppi che dispongono di meno soldi (studenti, disoccupati, giovanissimi). Spesso si chiude tutto per impraticabilità, La giunta prima se ne fregava (ecco la loro autogestione!) e poi è finita tutta quanta al fresco e così si è bloccato tutto per quanto riguarda delibere e soldi. Mezza villa d’un assessore ladro basterebbe per noi tutti. Comunque.

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2) La Rassegna dei gruppi di base, E’ una storia già abbastanza lunga, avendo avuto luogo 5 (?) edizioni della Rassegna con nomi diversi ma sempre a partire della manifestazione iniziale. Si può leggere una grossa parte della politica culturale del comune nello sviluppo della Rassegna: prima edizione 3 giornate (8 ore ca.) al Palasport (!), biglietto basso per entrare, ottima amplificazione, propaganda sia per cercare i gruppi (non c’è una selezione) sia per far conoscere la rassegna. Pubblico non tantissimo ma per la prima volta va già bene. I gruppi di base (perché è per loro che si fa la manifestazione) sono tutti i gruppi non professionisti, che con mezzi propri (sala prove, strumentazione ecc.) fanno un repertorio proprio (discriminante per partecipare). Grosso casino anche sulla Stampa per questa nuova manifestazione con cronache tutti i giorni. Nei tre anni successivi la Rassegna diventa “I giorni della musica” e cambia posto. Un anno al tendone dei giardini Lamarmora (fianco alle Nuove) e due anni al parco Ginzburg. Se non sbaglio su due delle tre edizioni viene effettuata una selezione che da circa 60 gruppi ne tira fuori 20/22. Le selezioni sono pubbliche e propagandate, A decidere (al tendone) è il pubblico (scarso). Il comune costituisce una cooperativa di una decina di giovani che segue tecnicamente le cose (l’impianto, il palco, il trasporto). La gestione politica e manageriale compete all’Assessorato alla Gioventù – Settore Musica. Tecnicamente tutto lascia molto a desiderare e si ha l’impressione che la manifestazione sia un pò un rodaggio. Già alla seconda manifestazione si assiste alla prima intromissione pesante di quel gruppo di musicisti (non tutti) che ruotano attorno al jazz-rock degli Esagono, ex Arti e Mestieri, Combo jazz e amici. Al tendone suonano gli Esagono senza aver fatto le selezioni, di straforo si dice e presentati come se fossero i Weather Report, Sono gli anni che questi musicisti (senza dubbio fra i migliori di Torino) occupano tutti i posti che il Comune apre attorno a queste iniziative. Le altre edizioni sono simili mentre nel frattempo c’è il primo festival del rock italiano con altre selezioni. Su quest’ultima rassegna (ho visto la seconda edizione, a Bologna) ci sarebbe da scrivere parecchio ma eviterò, per una volta, il turpiloquio. A Torino invece l’ultima edizione dei giorni della musica, ancora al Parco Ginzburg, è l’immagine più fedele della linea politica che anima il Comune ed altri enti. Per chi non c’è stato (e sono molti, il pubblico infatti era mediamente scarso nelle tre giornate) se vuole avere un’idea, basterà che si ricordi delle 20 edizioni del Festival di Sanremo, Castrocaro, Festivalbar, la sagra dell’aglio, ecc. 2 presentatori (un maschio e una femmina) in vestito da sera (demenziale la scena alle 3 del pomeriggio nell’afa), luci, manifesti, un palco enorme con fotografi, rai, giornalisti, produttori, ecc. Ma al di là delle considerazioni tecniche e musicali, c’era nella rassegna tutto il concentrato di quello che il Comune ed altri stanno facendo a Torino. In sintesi, la parola d’ordine è: elevare la qualità

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dei prodotti (si tratta di musica, non di melanzane come può sembrare), creare un circuito e lanciare quelli “meritevoli”. Si sono create attorno delle strutture capaci di gestire la cosa: un archivio di nomi, indirizzi con conseguente pubblicazione delle pagine gialle del rock (con tanto di coca-cola, foto di Linda di Franco, Mixo, il Flash staff, con l’immancabile David Bowie che sorride), un’agenzia di promozione come l’inculagiovani con solerti funzionari che produce video (per la Videouno, ovvero telePCI), programmi radio, concerti ecc. C’è una specie di consorzio fra questo settore dell’Assessorato, l’ARCI, RadioFlash e alcuni produttori discografici che in quest’ultimo anno hanno creato 2 etichette discografiche (sono di più ma più piccole). Ecco allora valanghe di articoli e foto sulla Stampa Serva, ogni stupendo telefilm di Kojak interrotto da Aiazzone o i Metal Kids, Mass Media e Granato ecc., la rai che arriva e filma, dischi stampati (e venduti poco poco, ahimè) magliette e patacche. In conclusione “Ci sono 10 gruppi bravi a Torino. Gli altri se fanno schifo è perché lo vogliono. Spingiamo i primi 10. Facciamogli da produttori” Discorso LETTERALE sentito da uno che conta in quel giro. Così, alla rassegna del Parco Ginzburg o ai Punti Verdi (col programma Assedio distrutto per pagare porcherie varie) si spendono milioni e milioni, mentre ai Punk viene dato un impianto schifosissimo, nelle sale prove TUTTO è rotto e nessuno per mesi fa nulla in quanto ovviamente gli operatori non ricevono i soldi dalla Giunta, le sale prove a pagamento hanno prezzi assurdi, i locali per tenere concerti sono off-limits. 3) Quest che sembrava un articolo sulla musica sembra invece essere un’analisi (?) della gestione politica in questo campo a Torino. E allora parliamo della musica. E’ incontestabile che negli ultimi 3 anni una marea di nuovi gruppi si siano formati ed esibiti a Torino. Troppo spesso quando si dice musica, si pensa al rock. Ora è sicuramente vero che il rock, per i suoi moduli, per la strumentazione che necessita (e anche per la retorica interessata che lo circonda) è il “genere” musicale che, per il 90% viene scelto dai gruppi. Un discorso a parte meriterebbe la questione se esiste ancora il rock: oggi si può leggere che Laurie Anderson o i Monuments fanno rock così come lo fanno gli Iron Maiden. Ma la faccenda ha l’età del rock e di solito si finisce per infilare una serie di aggettivi che specificano tutto e nulla. Senza voler entrare nel merito (non ne sarei onestamente

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capace) mi sembra che il rock sia più definibile per COME venga prodotta e diffusa, per il meccanismo economico che la sottende e il suo ruolo, che non attraverso un giudizio critico (?) estetico (?) storico (?). Forse negli ultimi anni (ultimi 10 intendo) sotto la spinta di innovatori (grandi e misconosciuti) l’incontro di territori di ricerca diversi si sono incrociati provocando un aumento del caos (che ritengo personalmente creativo), costringendo i critici – critici a rincorrere una materia che sfugge molto in fretta. Musica – improvvisata, jazz, elettronica, gli stilemi del rock ’n’ roll, la musica etnica (così definita per separarla dalla cultura dominante delle società capitaliste), la musica seriale. Nei più disparati dischi si possono si possono verificare collisioni e incontri di questi orientamenti musicali. Un discorso ancora a parte, di cui dirò pochissimo, è il punk, movimento politico/musicale che è vivo e vegeto e che quindi per uno che non è punk, si può solo “vivere” e non descrivere. Tutte le altre cosiddette “rivoluzioni” (la new wave, le cult-band, il look, ecc.) mi sembrano “interne” al discorso precedente e pilotate. Per farla breve, questa è un pò la dimensione musicale in cui in questi anni hanno vissuto i musicisti di Torino.
Ma ci sono questioni nuove e vecchie che stanno tutto attorno al “momento” musicale.

  • Italia colonia – periferia
  •  Musica – merce – profitto – lavoro – mercato
  • Tempo libero – rivoluzione tecnologica – metropoli
  • Registrazione – fotografia della musica – riproduzione – sistema binario
  • Il punk, l’autogestione